Il 25 novembre cade, come ogni anno dal 1999, la giornata contro la violenza sulle donne.
A Milano, ho visto molte donne indossare accessori di colore rosso o scarpe rosse, simbolo ideato nel 2009 dall’artista messicana Elina Chauvet con l’opera Zapatos Rojas. L’installazione è apparsa per la prima volta davanti al consolato messicano di El Paso, in Texas, per ricordare le centinaia di donne rapite, stuprate e uccise a Ciudad Juarez.
In televisione e sui giornali ampio spazio è stato dedicato a questa giornata.
Tuttavia, quasi nessuno si è preso la responsabilità (letteralmente, nel senso di “portare il peso di”) di parlare di un fenomeno terrifico, perpetrato ai danni di donne, che non ha conosciuto neanche la crisi da Covid 19: quello degli uteri in affitto.
Forse, mi sono detta, se ne parla poco perché si tratta di numeri, tutto sommato, esigui, di una minoranza.
Eppure, più che mai, in questi ultimi anni le minoranze vengono tutelate in ogni modo.
Il silenzio, sul tema degli uteri in affitto, è assordante.
Uteri che sono donne, in realtà.
Donne che hanno un’invisibilità sociale assoluta e che agiscono sulla spinta di gravi problemi economici.
Potrebbero essere nostre sorelle, madri o mogli.
Se il problema ci riguardasse da vicino, sarebbero ancora invisibili ai nostri occhi?
In Italia l’utero in affitto è illegale. Al momento.
Forse perché c’è la consapevolezza che quando non lo sarà più, si verificherà, nella migliore delle ipotesi, un acceso dibattito.
Al di là della cultura profondamente cattolica in cui siamo immersi (anche chi si definisce agnostico vi è immerso, poiché la sua formazione è impregnata della nostra cultura millenaria),
il dibattito si aprirebbe in contesti non solo istituzionali.
E la Chiesa millenaria prenderebbe una posizione chiara.
Alla fine, sarebbe una questione popolare, nel senso letterale del termine. Con esiti non scontati, quando la spinta parte dal basso.
D’altronde, l’Italia non potrebbe smentirsi: siamo fra i Paesi europei che più di tutti si sono spesi nel sostenere l’inaccettabilità di qualsiasi forma di violenza sulle donne.
Le coppie italiane si rivolgono a Paesi come l’Ucraina e la Grecia, le nazioni più vicine in cui è possibile trovare un utero in affitto spendendo dai 30.000 ai 50.000 dollari, tutto incluso.
In questi paesi ci sono delle condizioni da soddisfare: in Ucraina, ad esempio, vengono accettate solo coppie eterosessuali e sposate. In Grecia è richiesta la residenza.
Nel 2015, i paesi asiatici hanno vietato la maternità surrogata commerciale, dando prova dello sfruttamento del sistema da parte di coppie straniere e degli abusi da parte delle agenzie intermediarie.
L’India nel 2019 ha cercato di regolamentare il fenomeno vietandone la pratica commerciale e incentivando invece quella altruistica, a favore cioè di membri della stessa famiglia e quando le coppie richiedenti – solo di nazionalità indiana – siano legalmente sposate da almeno cinque anni e con provata infertilità.
Quindi: negli Stati Uniti, Canada tutto è molto più libero e fluido, nessuna condizione.
Con una cifra che varia: negli Stati Uniti intorno ai 100.000 dollari.
In altre parole, maggiore è il potere d’acquisto di una coppia, maggiori sono le probabilità che la gravidanza venga portata a termine con successo.
Inoltre: più il prezzo è inferiore, peggiori saranno le condizioni igienico-sanitarie delle donne nei paesi più poveri.
Eppure, se ci soffermiamo un attimo, portare in grembo un bambino per nove mesi è una delle esperienze più intime e sconvolgenti che ci possano essere.
E quando, al momento del parto, il bambino viene espulso e allontanato dalla donna-utero, il danno che ella ne riceve (che sia consapevole o meno di esso) è immenso in termini di salute mentale.
Qualcuno sosterrà che non essendo un figlio biologico la donna non lo viva come un trauma.
Bene, allora: le donne che rimangono incinta grazie alla FIVET, magari tramite un’ovodonazione, non si sentono e non sono madri?
Le coppie che adottano bambini, non si sentono o non sono genitori?
C’è molta ipocrisia e altrettanto isterismo sull’argomento.
Interessante che il fenomeno degli uteri in affitto venga chiamato MATERNITA’ SURROGATA (dall’inglese surrogate motherhood)
Linguisticamente, si sposta l’attenzione su un termine MATERNITA’ (Enciclopedia Treccani: ll periodo della vita della donna dall’inizio della gestazione fino all’allevamento del neonato) avente un’accezione positiva anziché su un soggetto femminile, una donna, che cede in affitto una parte di sé, il proprio utero ad una coppia committente.
Siamo sicuri che le donne che portano avanti una maternità surrogata lo facciano consapevolmente, liberamente, con spirito oblativo?
Infine, il linguaggio è meraviglioso perché spesso consente di rendere accettabile anche ciò che può ledere, ferire, violare. Le donne, in questo caso.
E così: se voglio un paio di scarpe rosse me le compro.
Se voglio un figlio a tutti i costi mi posso avvalere della maternità surrogata.
Che detto così sembra quasi elegante, vero?
Fonti: https://www.balcanicaucaso.org/aree/Ucraina/L-Ucraina-delle-madri-surrogate-203929
https://www.avvenire.it/mondo/pagine/lindia-chiude-con-lutero-in-affitto
Vedi anche: psicoterapia a Lodi